La transizione green e la nuova centralità delle foreste e del lavoro forestale

L’Unione Europea ha varato da tempo una politica programmatoria tra le più ambiziose dal dopoguerra ad oggi che porta con sé una visione lungimirante che inerisce tutti gli aspetti del nostro vivere sociale, ma che impatta sul modo di vivere e di intendere il mondo. Molti parlano di un nuovo umanesimo incentrato sulla sostenibilità delle nostre azioni, tra cui quella di lavorare la terra per produrre cibo. Partiamo da un assunto: non possiamo più pensare solamente a produrre e basta, e nemmeno pensare di produrre bene e con un minore impatto sull’ambiente e sulle risorse, siano esse il suolo, l’aria o l’acqua.
L’obiettivo è quello di produrre (di più e meglio) al contempo preoccupandosi di “rigenerare” l’ecosistema. E per farlo si avrà a disposizione sempre meno spazio colturale: nei prossimi dieci anni la Superficie Agricola Utilizzata (Sau) nell’Ue si ridurrà dello 0,7% rispetto al dato attuale, scendendo a 160,5 milioni di ettari, a fronte di un contestuale incremento delle aree forestali, che supereranno per estensione quelle agricole, con 161,4 milioni di ettari previsti alla fine del decennio.
La foresta sarà più estesa delle aree agricole. Va benissimo sottolineare il ruolo di serbatoio nell’azione di sequestro di carbonio, ma è bene anche spingersi a riflettere su come dovrà essere gestito il patrimonio forestale, in particolare in un Paese come l’Italia dove le possibilità di valorizzazione sono infinite, ma tutte ampiamente sottoutilizzate.
Dal punto di vista ambientale, le foreste forniscono diversi servizi ecosistemici: contribuiscono alla protezione del suolo (ad esempio contro l’erosione), partecipano al ciclo dell’acqua e regolano il clima locale (in particolare attraverso l’evapotraspirazione) nonché il clima globale (in particolare immagazzinando carbonio). Habitat di numerose specie, le foreste proteggono anche la biodiversità.
Dal punto di vista socioeconomico in Europa lo sfruttamento delle foreste genera risorse, soprattutto legname. Dei 161 milioni di ettari di foresta, 134 milioni sono disponibili per la produzione di legno (questo utilizzo non è limitato da restrizioni legali, economiche o ambientali). Su questa superficie gli abbattimenti rappresentano soltanto circa i due terzi dell’incremento del volume annuale di legno. La principale destinazione d’uso di tali risorse è energetica (42% del volume), contro il 24% destinato alle segherie, il 17% all’industria della carta e il 12% a quella dei pannelli. Circa la metà del consumo di energia rinnovabile nell’Unione deriva dal legno. Le foreste forniscono inoltre prodotti «non lignei» (diversi dal legno), in particolare alimenti (bacche e funghi), sughero, resine e oli. Esse costituiscono altresì il contesto in cui si sviluppano alcuni servizi (caccia, turismo ecc.). Il settore forestale (silvicoltura, industria del legname e della carta) rappresenta circa l’1% del PIL dell’Unione, valore che in Finlandia può arrivare al 5%, e dà lavoro a circa 2,6 milioni di persone.
La superficie boschiva e il volume di legno raccolto in Europa hanno raggiunto oggi il livello più elevato da decenni. Inoltre, la cattura di carbonio nelle foreste europee e lo stoccaggio di carbonio nei prodotti legnosi durante tutta la loro vita contribuiscono a rallentare l’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera.
Le foreste sono in grado di assorbire 0,5 Gt di CO2/anno, il che equivale al 10% delle emissioni totali di gas a effetto serra dell’UE-27 provenienti dall’industria, pur conservando due funzioni essenziali:
• la cattura e lo stoccaggio del CO2 atmosferico nel legno e nel suolo. La gestione sostenibile delle foreste con raccolte regolari migliora la capacità di attenuazione del carbonio delle foreste, assicurando che esse sviluppino costantemente capacità nuove e supplementari di cattura del carbonio;
• la sostituzione del carbonio attraverso:
– la biomassa legnosa che viene utilizzata al posto dei combustibili fossili non rinnovabili per la produzione di energia;
– i prodotti legnosi raccolti che sostituiscono i materiali industriali ad alta intensità energetica e ad alto tenore di carbonio (come i metalli e i materiali
sintetici) nell’edilizia e nella fabbricazione di mobili.
Nonostante la superficie boschiva in Europa sia aumentata negli ultimi 60 anni, l’afforestazione e la riforestazione possono apportare un valore aggiunto e dovrebbero pertanto essere incoraggiate, segnatamente sui terreni abbandonati e nelle zone di importanza marginale per l’agricoltura.
Ci sono, in particolare, 5 settori strategici che puntano sulla sostituzione dei prodotti fossili: prodotti legnosi ingegnerizzati; schiume e isolanti di legno; bio-plastiche; compositi a base di legno; prodotti bio-tessili. Il mercato sta imponendo alle multinazionali materiale bio-sostenibile e ciò sta facendo sì che i nostri bambini giocheranno con mattoncini a base di legno o indosseranno sneakers a base di schiume di legno.
Affermando la sua centralità sul mercato il comparto, potrà quindi rilanciare il lavoro forestale. Secondo i dati Istat 2017, in Italia si contano oltre 5.600 imprese forestali, con in media circa 1,3 addetti per impresa. (più di 7mila lavoratori). Si tratta di imprese di piccole dimensioni, spesso a carattere familiare. Rispetto alla rilevazione del 2011, nel complesso, il numero delle imprese appare stabile. Gli operai forestali pubblici al 2017 (Fonte dati Fondazione Metes) risultano poco meno di 50.000, il 56% dei quali assunti a tempo determinato. Essi si concentrano in particolar modo nelle amministrazioni regionali del Centro-Sud (circa 90%). In Italia sono presenti anche numerose cooperative forestali. Le Centrali Cooperative, riferendosi al 2017, mostrano un totale di oltre 200 cooperative forestali con più di 5.000 tra soci e addetti. Il settore della prima trasformazione del legno (segherie, carpenterie) conta, secondo i dati Istat 2017, poco più di 25.000 imprese con mediamente 4 addetti per impresa. Rispetto ai dati del 2008, a seguito della crisi economica, si è registrata una diminuzione del 27,8% nel numero di imprese e del 34,4% nel numero di addetti. Il 60,5% degli addetti ed il 48,5% delle imprese si trova in sole 8 Regioni o Province Autonome (Lombardia, P.A. Trento, P.A. Bolzano, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Marche e Umbria), con un’evidente carenza per quanto riguarda le aree del Centro-Sud. Sempre riferendosi al 2017, il settore della produzione di mobili ha all’attivo circa 9.100 imprese con mediamente 7,8 addetti per impresa. Tali imprese sono localizzate per il 34,3% nel solo Nord-Est e solo per il 14,7% nelle Regioni del Sud e nelle Isole.
Tuttavia per affermare questa centralità di cui parlavo poc’anzi, per dirla con le parole del prof. Davide Pettenella è necessario un cambiamento di paradigma passando da “una politica volta ad ampliare e ricostruire lo stock di risorse con un’attenta politica di controllo dei prelievi e dei cambiamento di uso del suolo” ad una strategia che punti a “gestire attivamente e nei limiti delle esigenze di tutela ambientale, produrre e creare lavoro anche per ridurre i costi di protezione”. Ad una politica dei vincoli, ad una politica che privilegi le partnership e la promozione, più che i divieti ed il mero controllo. Vale quanto affermiamo con il caporalato: serve accompagnare ai controlli, la valorizzazione di una corretta gestione che porta impatti impositivi sia sui territori che sulle comunità che vi risiedono. Lo Stato sino ad ora si è preoccupato di mettere su un apparato di controllo imponente, ma non ha mai pensato a come valorizzare una risorsa che altri paesi sfruttano meglio (se non appieno).